Il pensiero della forma: stile, lingua, mondo
Antonio Prete
Il pensiero della forma: stile, lingua, mondo
Nel linguaggio di un’opera – che abbia una tessitura verbale, figurativa, sonora – c’è, come una nascosta sinopia, il volto dell’artista, anche laddove modi compositivi e tecniche espressive ne abbiano voluto cancellare le postille. E, sovrapposta a quella sinopia, come materia stessa del mostrarsi compositivo, c’è l’altra presenza, quella che muovendo dal visibile del mondo, dal tempo e spazio del sapere, dalla tradizione, dal vivente, dai viventi, è diventata suono, immagine, ritmo. Forse la forma è proprio, ogni volta, la singolarità individuata e non replicabile di questa doppia presenza del sé e del mondo nel cuore pulsante di una lingua. Per questo è inseparabile il pensiero di una forma dai modi del suo apparire, l’ombra della riflessione compositiva dalla materia stessa dell’espressione, l’idea dal ritmo. Tanto più è inseparabile questa doppia presenza tanto più è alto il livello di energia inventiva che respira in una composizione. Questa premessa – margine scritto a matita nel foglio di guardia che chiude Un ricordo al futuro di Luciano Berio – può fare da apertura ad una riflessione che muove da alcuni passaggi illuminanti delle Lezioni Americane: quasi un dialogo, a distanza temporale e non solo, con un pensiero della forma come quello al quale Berio ha dato respiro e timbro. Le sei lezioni di Harvard non solo tessono una mirabile tela di poetica – intesa come proiezione meditativa e interrogativa del proprio fare artistico – ma definiscono il campo di una costante comparazione tra la musica e gli altri linguaggi dell’arte, quasi a cercare quei movimenti di pensiero, di interiore pulsione alla rappresentazione e alla figurazione, che presiedono, in ogni linguaggio, all’arte del comporre. Un’arte che per Berio è attraversamento consapevole e inventivo del linguaggio musicale in tutta la sua estensione. Fino a quei confini dove, baudelairianamente, si possono scorgere i riverberi di altri linguaggi e ad essi si risponde con i propri mezzi. Fino alla soglia dove si affaccia il silenzio di ogni lingua, o l’ombra di un’altra impronunciata, intransitabile, lingua. Sul margine delle sei lezioni, ecco, quasi in controcanto, o come leggero contrappunto, sei brevi passaggi.
Il suono del pensiero. Berio legge l’esperienza musicale come costruzione di un testo, ma questa idea di testo non si lascia ombreggiare da mode strutturaliste né cede ad astrazioni di genere, segue piuttosto un movimento in cui la scrittura musicale e la sua esecuzione mostrano insieme l’anteriorità di alcune presenze – il dialogo con le altre esperienze, il convito con una biblioteca sonora e poetica – e il balzo inventivo che delinea la propria singolarità, il proprio stile. Uno stile inteso come quel che della lingua è encharné nell’autore, per dirla con Barthes, davvero il proprio, il corporeo, il singolare della lingua. E tutto questo nell’orizzonte di una concezione per dir così estensiva e totale, non sommatoria e esteriormente combinatoria, dell’arte musicale. Non wagneriana e utopica Gesamtkunstwerk, ma musica che accoglie nel suo respiro, nel suo farsi, le altre arti. È insomma ancora viva la lezione analogica, non eclettica, di Baudelaire. Da qui il rapporto di fortissimo ascolto dinanzi a quel che giunge da una storia dei testi musicali, dalla sua variabilità nel tempo e nelle forme, dal suo stesso divenire, dalla sua non monumentalità, ma prossimità. Da qui il riferimento, come cerchio consapevole in cui situarsi, ai tre ordini definiti da Boezio: musica mundana, tempo-spazio in cui risuona l’armonia dell’universo, musica humana, ovvero teatro dell’interiorità, musica instrumentalis, lingua delle voci e degli strumenti.
A partire da Poe e fino a Valéry, il pendolo tra suono e senso, o l’esitazione tra suono e senso, è sembrata espressione adatta a definire l’azione della poesia (ma già molto prima, e in forma più radicale, un passaggio del Convivio di Dante sul proprio della poesia – «per legame musaico armonizzata» – tracciava l’inseparabile relazione tra suono e senso). Per Berio si potrebbe dire che quell’oscillazione, o quel legame, è tra suono del pensiero e pensiero del suono. Per questo l’insistenza del musicista sul dialogo necessario tra pensiero e strumento. E questo senza nulla togliere a un’idea per dir così sensibile, materica, della parola musicale, che è non nome della cosa, ma cosa. Gli evocati dialoghi con la tastiera – da Beethoven a Bela Bartók, da Messiaen a Stockhausen, da Boulez allo stesso Berio – implicano allo stesso tempo un corpo a corpo con la specificità della materia sonora e un cercare nella sensibile lingua l’oltre di ogni lingua: è poi questo il cammino dell’invenzione. Ancora, richiamerei la fantasque escrime, la scherma fantastica con la rima, e il duro urto sulle parole che per il Baudelaire di Soleil, quasi ad apertura della poesia metropolitana dei Tableaux parisiens, dischiude ogni giorno il lavoro del poeta. Questi legami sensibili, corporei, con il suono, questa lotta con l’angelo della lingua sono la terra su cui nasce il fiore della nuova parola.
Del tradurre e interpretare. Nell’idea che Berio ha di trascrizione, e nella sua pratica, è in gioco un rapporto per dir così laico, non assoluto né apodittico, con la traduzione, con l’idea e le forme della traduzione. C’è una disposizione aperta, fenomenologica, funzionale, dinanzi alle forme e ai gradi di relazione che la traduzione può avere con il testo originale, in un percorso estesissimo che va dalla parafrasi all’invenzione, dalla copia all’imitazione. La seconda lezione harvardiana di Berio è un contributo rilevante a una teoria della traduzione che muova dall’esperienza, dalla variabilità e molteplicità delle esperienze. Tradurre il Finnegans Wake di Joyce è come trascrivere Jeux di Debussy, dice Berio: di fatto ogni traduzione romperebbe il dantesco «legame musaico» che in queste opere è davvero indissolubile. D’altra parte la storia vivacissima delle trascrizioni musicali mostra che l’azzardo, come nell’atto del tradurre la poesia, appartiene alle pulsioni proprie di colui che traduce. Quel che Berio dice della trascrizione musicale si può dire della traduzione di un testo poetico da parte di un poeta: passaggio alla propria lingua stando all’ombra dell’altra lingua, imitazione, direbbe Leopardi, non di una cera con la cera ma di una cera con il marmo, di una materia con un’altra materia. L’idea e la pratica della trascrizione che ha Berio illumina i processi di quel passaggio che spesso i poeti fanno dalla voce altrui alla propria voce, dal ritmo e timbro di un altro poeta al proprio ritmo e al proprio timbro, cioè a una tessitura di suonosenso nella quale un testo rinasce, s’invera ed è oltrepassato da un altro testo. L’atto del tradurre in questo caso ha a che fare con la metamorfosi. Contiguità tra traduzione e invenzione, tra trascrizione e invenzione. Dialogo tra le lingue per la costruzione di un nuovo oggetto linguistico, che ha un nuovo respiro. Ma anche esegesi di un testo che diventa soglia per la nascita di un nuovo testo. «Ho sempre pensato – scrive Berio – che il miglior commento possibile di una sinfonia fosse un’altra sinfonia. Credo che la terza parte della mia Sinfonia sia l’analisi più completa e profonda che avrei mai sperato di poter condurre dello Scherzo della Seconda Sinfonia di Mahler. La stessa cosa è vera per il mio Rendering per orchestra, che è il mio atto d’amore per Schubert e gli schizzi per quella che sarebbe stata la sua ultima Sinfonia in re maggiore». Trascrizione come esegesi e come atto d’amore. Così, quando un poeta sembra sottrarre all’altro poeta quello che lui ha di più proprio, cioè la sua lingua, che è suo paese e abito e corpo, di fatto muove verso la sola preservazione amorosa che di quel poeta egli è capace di mettere in atto, una sorta di interiore custodia: è nel cuore della propria lingua, e del proprio sentire, che un poeta può ospitare e far rivivere un altro poeta. In questo senso è molto vera la considerazione di uno scrittore che certo non aveva fascinazioni formaliste come Edmond Jabès quando scrive: «La Poèsie n’a qu’un amour: la Poésie». Lo stesso amore generatore di invenzione opera nella cura del musicista verso quella musica che ha le sue vene e i suoi rivoli nella tradizione popolare: anche qui unità di ascolto e invenzione, un amore che si manifesta nella costruzione di nuove forme che le prime forme accolgono e custodiscono ma in una nuova lingua, in un nuovo stile. Quello che Berio dice di Bartók pare riecheggiare quello che Leopardi diceva del suo amato Rossini, che cioè che costui accoglieva le melodie popolari e le reinventava, per custodirle ma su un altro piano, e il riconoscere la radice popolare delle melodie creava l’adesione nell’ascolto. Berio, del resto, è l’autore dei bellissimi movimenti che nelle Folk Songs consegnano una festa delle lingue e della canzone alla voce di Cathy Berberian e degli strumenti. Allo stesso tempo il compositore ha esteso il processo di trascrizione al dialogo tra gli strumenti – rispondenze, risonanze, riprese, amplificazioni, rispecchiamenti, rinvii – come se la costruzione musicale fosse, ancora baudelairianamente, un incessante esercizio di correspondances di suoni e silenzi e modi e tempi. L’analisi che Berio stesso fa delle diverse stazioni dei suoi Chemins lo ha mostrato.
Sulla libertà della memoria. Dimenticare per edificare: questo movimento che Berio suggerisce e pratica nel rapporto con la storia del linguaggio musicale e delle opere ha fondamento in un rapporto con la tradizione non passivo e riproduttivo ma capace di balzi continui verso quell’ignoto che è, ancora baudelairianamente, sede possibile del nuovo. L’opposizione tradizione-avanguardia è da sempre una falsa opposizione, perché sta nel modo di interrogare il tesoro di una tradizione – opere, linguaggi, esperienze artistiche – il segreto di un passaggio al nuovo. Si tratta di non opporre alla benjaminiana “aura” la riproducibilità, ma di ritrovare le forme nuove di un’“aura”, direi le risonanze di quelle forme all’altezza della propria epoca. È lo stesso atteggiamento che Leopardi mostrava dinanzi all’antico: non linea auratica di un ritorno, ma soglia per la critica del moderno e luogo di apprendimento di quella naturalezza e semplicità e arte del nascondimento dell’arte che erano necessari nell’attraversamento dei linguaggi così come la contemporaneità li mostrava ed elaborava, dopo l’eclisse della temperie romantica europea. Un analogo atteggiamento inventivo e meta-morfico ma allo stesso tempo recettivo e d’ascolto è quello che Berio mantiene dinanzi alla vocalità, osservata in tutte le sue manifestazioni, che si situano tra il rumore e la voce, tra il silenzio e il suono, tra il brusio e la parola. Dinanzi al prima linguistico non è tanto la parodia la soluzione che conduce all’arte ma, come ha dimostrato Agon di Stravinskij, la trasformazione dell’eredità – di forme e modi e processi della classicità – in un insieme linguistico che reinventa portando leggerezza, sottraendo peso (secondo quella leggerezza che Calvino riprese, proprio nelle Lezioni americane, dall’esempio leopardiano dell’Elogio degli uccelli). «Perché – scrive Berio – dobbiamo renderci capaci di suscitare la memoria di quello che ci serve per poi negarla, con una spontaneità fatta, paradossalmente, anche di rigore». È una definizione non dell’avanguardia, ma del lavoro artistico, del suo rapporto dialogico e insieme inventivo, d’ascolto e insieme di dimenticanza, con le forme trasmesse, con la loro aura e la loro polvere, con il loro bagliore e le loro ombre.
Dell’incompiutezza. In dialogo con l’idea di “opera aperta” di Eco, Berio disloca il non finito di una tessitura musicale, della sua costruzione, fuori dall’orizzonte del fare artistico, lo porta nell’orizzonte dell’ascolto e dell’esecuzione. C’è un’analogia tra le riflessioni di Berio intorno al non-finito nella musica e la relazione che l’autore di un testo poetico o narrativo istituisce con il lettore. Una struttura compositiva, come ha i suoi statuti, le sue architetture, la sua ratio, così dispone il frammento, la discontinuità del dire, il vuoto o il silenzio in un ordine compositivo. Si vede benissimo come nella poesia tanto la forma chiusa quanto la forma aperta rispondano a una logica compositiva e appartengano all’ordine delle scelte formali, ma non riguardano la singolarità e per dir così la “verità poetica” del dettato e dell’esito formale. È davvero nel rapporto con il lettore, e con l’interprete, che un testo poetico o musicale rivela la sua poliedrica e aperta disposizione ad andare verso l’ascolto, verso la vita nuova e il tempo nuovo di un ascolto. E questo è poi anche un principio, certo antico, dell’esegesi: scriptura cum lectoribus crescit. Nel tempo-spazio dell’ascolto, e dell’esecuzione, nella stanza del lettore o nella recitazione, nella lingua dell’interprete, e aggiungerei del traduttore, un testo accade, cioè prende vita, e questo accadimento ha la variabilità e l’intensità e la forma stessa che gli sa dare colui che ospita. «Il non finito – scrive Berio – riguarda dunque la rappresentazione, la carta geografica, ma non lo spirito dell’opera, non l’itinerario né il territorio. Riguarda l’uso che se ne fa». Aggiungerei che è proprio l’esperienza dell’incompiutezza, della sospensione, della discontinuità, l’esperienza del silenzio e del vuoto che conserva l’arte musicale e poetica nel cerchio dell’imperfezione, la garantisce dal pieno astratto e tronfio della perfezione. C’è, in questa benefica distanza dalla perfezione, la leopardiana necessità della sprezzatura. C’è il baudelariano senso della bellezza ferita. Ci sono i versi di Bonnefoy che dicono:
Aimer la perfection parce qu’elle est le seuil,
Mais la nier sitôt connue, l’oublier morte,
L’imperfection est la cime
(Amare la perfezione perché essa è la soglia,
ma appena conosciuta negarla, morta dimenticarla.
L’imperfezione è la cima).
Del suono, dell’immagine. Quanto sia forte la pulsione della musica verso una figurazione e un’attivazione scenica lo mostra, certo, il teatro dell’opera, lo mostra quella drammaturgia che per Wagner doveva rendere visibile l’azione musicale, e lo mostra la stessa presenza sulla scena dell’interprete vocale e strumentale. Vedere la musica per Berio è anzitutto una questione che ha la sua radice nel pensiero musicale: è da qui, dalla sua natura, dalle sue forme, che può muovere una rappresentazione. La poesia ha invece, per la sua storia, un radicamento più forte in quell’altra vista di cui diceva Leopardi («un’altra torre, un’altra campagna» che si delinea a partire dallo sguardo su quella torre, su quella campagna che ho dinanzi agli occhi: lontananza seconda e interiore che nasce dalla lontananza fisica). La tensione visiva nell’atto dell’immaginare ha il suo corrispondente nella iconicità che è tutt’uno con la sonorità della scrittura poetica, e i due elementi sono ben raccolti nel movimento della metafora, nella sua relazione con la materia e con il vivente. Certo, anche nella poesia ci può essere una tensione drammaturgica, al punto che può, per dir così, versarsi nel teatro: la storia dell’alessandrino raciniano nella Comédie o il sogno alfieriano e manzoniano di un teatro poetico popolare lo hanno mostrato. Ma il dialogo della musica con il teatro ha una storia più complessa, e in certo senso necessaria al divenire stesso della musica, come se il dialogo tra la vocalità e gli strumenti dovesse vestirsi di azione e farsi corpo in movimento e narrazione scenica per evitare che quell’altro dialogo, quello che avviene tra la costruzione sonora e l’ascolto, possa cadere nella solitudine di un’intimità priva di storia, fatta pura fuga immaginativa. Mi sono spesso chiesto perché Leopardi amasse l’opera e vedesse invece la musica strumentale come fredda astrazione, analoga a un pensiero disincarnato, espressione della “spiritualizzazione” della civiltà. Una risposta possibile è forse nel fatto che egli vedeva nell’ opera da una parte come un resto, una traccia, di quella relazione che nell’antico univa poesia e musica, dall’altra l’eco di quell’epos che si nutriva di memoria popolare, dall’altra ancora la ripresa e reinvenzione di quelle che lui chiamava melodie popolari. Quando Berio racconta la vicenda della messa in scena de La vera storia, con testo di Italo Calvino, mostra anzitutto il divenire di un processo scenico aperto, non predefinito nelle forme, il prendere visività e coralità e relazione col pubblico di un’azione musicale nella quale alla prima parte drammaturgica corrisponde una seconda parte che pensa la prima, modula la sua sparizione, e traccia i segni di un’altra possibile, ma inesistente, storia. È questo rinvio al non detto, al non prevedibile, al silenzio di un altro teatro, quello dell’interiorità di ciascuno, che alla fine importa. È in effetti il dopo, quello che per Jabès era l’aprés-dialogue, la vera scena in cui il dialogo avviene.
Poiesis. Al margine del fitto domandare di Berio intorno al rapporto tra azione compositiva e riflessione, tra tessitura musicale e analisi, tra presenza delle forme e coscienza delle forme, una breve notazione. La ricchezza di forme dell’esperienza musicale – pluralità di fonti assimilate, matrici timbriche e ritmiche che sviluppano cellule sonore, costruzione di uno spazio armonico, formazione e sviluppo di un tema, sua ripresa e frantumazione, sua metamorfosi e rinascita – di per sé può avere una proiezione riflessiva complessa, può definire uno spazio di poetica animatissimo. Ma, qui come in tutte le altre arti, può accadere che la coscienza compositiva sia come risolta nel farsi e nel divenire delle forme stesse, e non lasci residui di analisi nel compositore, rinviando così a un tempo altro, sia per l’autore sia per il lettore o ascoltatore, l’osservazione analitica della microfisica compositiva, del suo movimento, della sua storia. Questa condizione è frequente per la poesia, dove lo spazio della poetica, del pensiero che presiede e che accompagna o segue il Dichten, si identifica con il suonosenso, con le metafore, con il ritmo, con la tessitura sonora anagrammatica o visibile, ed è in questa costruzione che si colloca l’ascolto anche mentale del lettore. Il pensiero della poesia e la stessa poesia della poesia – solco aperto dai romantici che ancora è vivo – non sono separabili dal suono della forma né dalla costruzione di sensi e sovrasensi e di immagini. Anzi proprio in questo farsi ritmo di un pensiero, in questo farsi immagine di un’idea, sta quello che chiamiamo il poetico, con in più l’annessione, nel proprio spazio, dei silenzi, del bianco, delle risonanze di un’oltrelingua che permette di non identificare la poesia con la parola poetica: la poesia è quel che resta quando si pronuncia una parola, mi accadde di scrivere molto tempo fa. Sia per la poesia sia per la musica sia per le altre arti, si può dire che c’è un tempo per il definirsi di una poetica, un tempo in cui lo sguardo del poeta, come lo sguardo del lettore e dell’interprete si posa sulla terra della composizione, sul suo paesaggio, sulla sua foresta e sui suoi sentieri. Certo, ogni poiesis, ogni fare artistico, è anche un fatto di poetica, ogni azione compositiva è pensiero, e ogni costruzione artistica ha in sé anche il tempo della riflessione, dell’analisi, e della decisione, ma il mettersi a distanza, o di lato, il disporsi in un altro tempo permette di scorgere i particolari e i modi e le forme nella loro integrità e pienezza, per così dire. Ed è anche vero che questo altro tempo, questa dislocazione di sguardo può accadere nel corso stesso della composizione. Ma mantenere la distinzione temporale può forse preservare quell’essere in stato di poesia che è condizione della nascita di un verso, quel passaggio di vento che scuote la quercia e i corpi che è la variante profana, e tuttavia ancora necessaria, dell’antica ispirazione. Abitare la lingua deve voler dire anche essere abitati dalla lingua. Poiesis è creazione, sin dal racconto che Socrate fa nel Simposio ai suoi discepoli. Poiesis in quel racconto è equivalente di eros: l’una e l’altro designano il movimento verso una nuova presenza, un passaggio alla presenza. Presenza di forme, di suoni, di sensi, di ritmi. Il desiderio è la tessitura segreta di questa presenza. La poetica, che sia l’ombra riflessiva nella quale riposano le forme, o che sia il tempo altro di un’analisi o di un’esegesi dell’autore, sa che quel desiderio è il timbro vero, irriducibile a parola riflessa, è insomma il respiro di ogni composizione.
[Intervento alla Giornata Seminariale di Studi Poetica implicita vs poetica esplicita: gli scritti di Luciano Berio, Siena, Università degli Studi, 24 ottobre 2013. © Antonio Prete, per gentile concessione].