Luciano Berio, Costanti (1991)
[…] Facevo riferimento, poco fa, alle ricerche di Simha Arom nel campo della musica africana e in particolare dei Banda-Linda, una comunità dell’Africa Centrale nella quale Simha ha vissuto qualche tempo imparandone anche la lingua. Ascoltare le registrazioni da lui fatte sul luogo e le sue spiegazioni mi ha dato una grande emozione. Era il 1975. Senza entrare nei dettagli tecnici (Simha ha pubblicato esaurientemente sull’argomento), voglio solo ricordarvi che in quella comunità troviamo gruppi di circa quaranta suonatori: ognuno di essi suona una sorta di tromba di legno con la quale emette un solo suono, una sola nota, articolata su un solo modulo ritmico di base che saltuariamente viene sottoposto a variazioni e slittamenti minimi. Quando tutti i partecipanti sono impegnati nell’esecuzione, quello che giunge alle nostre orecchie è qualcosa di mai ascoltato prima: qualcosa che sta a metà fra una cattedrale sonora e una implacabile macchina musicale, assai complessa e rigorosamente coordinata allo stesso tempo. Sappiamo tutti che la creatività – individuale o collettiva che sia – non funziona quand’è priva di leggi e di criteri formali. I procedimenti random possono essere interessanti e significativi nelle nostre decisioni particolari (infatti, in un modo o nell’altro, ci accompagnano sempre e comunque anche al di fuori della musica); ma i comportamenti random, mi sembra, non approdano a nulla di sensato. Quale legge regola dunque il comportamento musicale collettivo di quei suonatori di tromba? C’è una melodia pentafonica che nessuno suona per intero ma le cui note vengono distribuite fra i vari suonatori. La melodia in quanto tale non si sente mai, ma i suoi caratteri e il suo “spirito” abitano ogni interstizio di quella impressionante “installazione” sonora. Naturalmente mi sono impossessato di quel procedi mento. Il fatto che sia curiosamente e lontanamente imparentato coi procedimenti seriali degli anni ’50 mi ha trovato predisposto e, direi, programmato per una loro assimilazione. Ne ho infatti sperimentato le possibilità di assimilazione e di trasformazione in un mio progetto musicale –Coro, del 1976 – che è in effetti un coro, un insieme di voci e strumenti, di testi diversi, di tecniche e di espressività diverse (è un lavoro che mi piace definire «la mia Gerusalemme musicale»). In Coro, dicevo, interagiscono molte tecniche diverse. Alcune di esse sono caratteristiche di culture musicali di tradizione orale (Sicilia, Jugoslavia, Scozia ecc.); ed è soprattutto con queste che le eterofonie dei Banda-Linda entrano in rapporto modulandosi vicendevolmente. Con Coro, dunque, i Banda-Linda hanno compiuto un lungo viaggio, interagendo con modi e procedimenti musicali di culture diverse. Modificandone le funzioni della loro “macchina sonora” – soprattutto attraverso deduzioni ritmiche omogenee al dato originale – li ho trasformati in qualcosa di diverso. Ma i Banda-Linda un lungo viaggio l’avevano già compiuto e naturalmente non lo sapevano, non lo sanno né, forse, lo sapranno mai. Quel procedimento di segmentazione, di suddivisione e di distribuzione ritmica della melodica “implicita” era già stato sperimentato in Europa nel xiii e xiv secolo. Mi riferisco all’hoquetus, cioè alla frammentazione a “singhiozzo”, su due o tre voci diverse, di una melodia data: una tecnica prepolifonica che tendeva a dare a una melodia una organizzazione temporale ulteriore. E con questo concludo. Per me, avervi parlato di Banda-Linda, di Coro e di hoquetus è stato un po’ come lanciare una bottiglia in mare con dentro un cauto messaggio: forse anche nella musica la storia può darci ogni tanto timidi ma concreti segnali dell’esistenza di organismi innati che, attraverso i secoli, paiono produrre embrioni grammaticali utili, fra l’altro, a una comunicazione interculturale costruttiva e pacifica. Ma questo è un altro discorso.
LUCIANO BERIO, Costanti (1991), in ID., Scritti sulla musica, a cura di A. I. De Benedictis, Einaudi, Torino 2013, pp. 292-97, in particolare pp. 295-96.