Michele Lomuto
Un certo rapporto con la scrittura
Quando il rapporto con la scrittura si impone in termini problematici siamo sollecitati a tornare, ancora una volta, al testo inaugurale della sua tematizzazione, il Fedro di Platone.
I discorsi scritti, come i personaggi di un dipinto: «crederesti che potessero parlare quasi che pensassero; ma se tu, volendo imparare, domandi loro qualcosa di ciò che dicono, ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa».
Ma la scrittura è anche parricidio. «Una volta che sia messo per iscritto, ogni discorso [...] prevaricato ed offeso oltre ragione, ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi».
Il mio primo rapporto con Sequenza V è stato, come per ogni concertista, un rapporto con una pagina scritta. Ma quando ho avuto il privilegio di accedere alla parola viva di Luciano Berio, trovandomi quindi in relazione con quello che per l’ontoteologia occidentale è il significante privilegiato in quanto non-mondano e non-empirico, non ho incontrato alcuna funzione paterna in difesa della sua scrittura, la quale, comunque mi aveva sempre risposto e mai «una cosa sola e sempre la stessa».
Quando l’Autore mi ha espresso un’osservazione, ho sempre avuto l’impressione che il suo punto di vista non facesse minimamente riferimento a una sua intenzione espressiva affidata al segno scritto, duplicazione esteriore di un’interiorità, sempre disponibile a sfuggire al controllo paterno.
Una volta mi chiese di indossare scarpe da ginnastica nella mia entrata in scena di Sequenza V: il suggerimento non proveniva dall’Autore ma dall’opera: era la soluzione che l’opera suggeriva per un problema; era necessario perché in quel pezzo entro mimando un artista di avanspettacolo e le scarpe di cuoio provocano un rumore che nel contesto non ha alcun senso.
In un’altra occasione mi mette sul leggio un foglio, che per la gioia degli analisti riporto in figura.
Si trattava di una bozza, scritta a matita, di quella che sarebbe diventata la mia parte solistica di Ofaním. La mia impressione è stata che il suo interesse fosse rivolto non a valutare se quei segni rappresentavano fedelmente il suo progetto, ma ad ascoltare l’infinita eccedenza del materiale.
Ne ho avuto conferma una sera a cena, dopo l’integrale delle Sequenze al 92d Street Y di New York. Mi disse che aveva apprezzato l’esecuzione del clarinettista David Krakauer, nella quale aveva ascoltato soluzioni interpretative che non aveva immaginato. Non ho potuto fare a meno di collegare l’ebreo Krakauer a quella definizione di Jabès: ebraismo come «un certo rapporto con la scrittura», e a quella di Lévinas: «amare la Torah più di Dio»; a quella ermeneutica rabbinica che non cerca «il» significato del testo, quello autentico, ma l’infinita apertura di infiniti orizzonti interpretativi, l'interminabile rimando da parola a parola, da scrittura a scrittura.
Ne ho avuto ulteriore conferma leggendo le sue Norton Lectures: «Gli strumenti sono i depositari concreti di una continuità storica e [...] hanno una memoria. Essi recano le tracce delle loro vicende musicali e sociali [...]».
L’eccedenza del materiale, quindi, è già radicata nell’ottone del mio trombone.
«Forse le difficoltà incontrate dai compositori quando parlano di testi, nascono dalla loro sensazione di essere essi stessi un Testo musicale, di viverci dentro e quindi di non possedere il distacco necessario per esplorare oggettivamente la natura del loro rapporto con se stessi in quanto Testi [...]. Non è un caso che i commenti più illuminanti scritti da compositori siano quelli su altri compositori [...]».
È questa quella visione esterna, dia-logica, che Bachtin chiama vnenahodimost, exotopia. È quella profonda sensibilità per quel movimento verso l’alterità senza ritorno che Lévinas chiama «movimento dell’opera».
Michele Lomuto